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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Cronaca

Falsi braccianti agricoli, estorsioni e summit durante i permessi dal carcere: il blitz dei carabinieri

Colpite le "famiglie" di Paternò e di Belpasso che erano impegnate in una serie di attività criminali in cui, oltre ad un fiorente traffico di stupefacenti, in particolare marjuana e cocaina, rientrano anche estorsioni, riciclaggio, ricettazione

Quaranta arresti tra le province di Catania, Siracusa, Cosenza e Bologna per associazione a delinquere di stampo mafioso, traffico di droga, estorsioni e associazione a delinquere per falsi e truffe ai danni dell'Inps. È il bilancio dell'operazione antimafia portata a termine nell'ambito di una inchiesta della Dda di Catania che ha consentito di ricostruire gli organigrammi di due gruppi mafiosi della famiglia Santapaola-Ercolano stanziati sul territorio di Paternò e Belpasso, oltre che di individuare le varie attività illecite degli affiliati: non soltanto un fiorente traffico di marijuana e cocaina, ma anche estorsioni, riciclaggio e ricettazione.

I nomi degli arrestati

Gli interessi delle famiglie mafiose coinvolte - Video

Nel mirino dei carabinieri, appartenenti alla famiglia catanese di cosa nostra, storicamente promossa e diretta al vertice da Benedetto Santapaola, Aldo Ercolano e Vincenzo Santapaola, articolata in gruppi stanziati sul territorio della provincia di Catania ed in particolare nei confronti del gruppo di Paternò storicamente diretto dalle famiglie Alleruzzo, Assinnata e Amantea, e al gruppo di Belpasso.

Il sodalizio mafioso operante in Paternò, e già facente capo a Giuseppe Alleruzzo, è stato poi riorganizzato da Domenico Assinnata e dal figlio Salvatore come emergeva dalle operazioni “Orsa Maggiore”, che nel 1993 per la prima volta individuava i gruppi dell’hinterland catanese ricollegabili alla famiglia Santapaola, e dalle successive operazioni denominate “Padrini” - che accertava l’operatività del clan sino al maggio del 2006 – e “Fiori Bianchi” che ne accertava l’esistenza ed operatività fino all’aprile 2010.

Le immagini del blitz - Video

Sulla scorta delle sentenze passate in giudicato, risultava giudiziariamente accertata l’esistenza di un clan mafioso operante in Paternò, diretto e organizzato nel tempo dalle famiglie Alleruzzo, Assinnata e Amantea. Gli indagati rispondono dell’accusa di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, associazione per delinquere finalizzata al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti, associazione per delinquere finalizzata alle truffe aggravate per il conseguimento di erogazioni pubbliche da parte dell’INPS; i fatti sono contestati sino all’agosto 2019.

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Le indagini

Le indagini prendevano le mosse nell’ottobre 2017 dalle dichiarazioni rese dapprima dai collaboratori di giustizia Mirko Presti e Gianluca Presti, e poi dai collaboratori Orazio Farina e Giuseppe Calìo, i quali tra l’altro riferivano che l’ergastolano Santo Alleruzzo inteso “a vipera” in occasione dei permessi premio si recava a Paternò per impartire direttive al clan, mantenendo quindi un ruolo di comando. Successivamente venivano effettuate numerose attività tecniche e di riscontro da parte dei carabinieri della compagnia di Paternò, all’esito delle quali emergeva che il clan mafioso operante in Paternò e facente parte del clan “Santapaola-Ercolano”, al suo interno era a sua volta articolato in tre gruppi, facenti rispettivamente capo alle storiche “famiglie” mafiose Alleruzzo, Assinnata e Amantea. Emergeva inoltre che capo ed organizzatore del gruppo, da gennaio 2018 a giugno 2019, era Pietro Puglisi, soggetto già condannato definitivamente sia per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. che per più estorsioni aggravate. Dunque, in sintesi, all’esito delle indagini veniva delineata la seguente ripartizione in sottogruppi del clan mafioso: il gruppo che faceva riferimento alla famiglia Alleruzzo, guidato dall’ergastolano Santo Alleruzzo; il gruppo che faceva capo alla famiglia Assinnata, con a capo Pietro Puglisi e Domenico Senior Assinnata, quest’ultimo quale figura storica e carismatica del clan; il gruppo che faceva capo alla famiglia Amantea guidato da Salvatore Vito Amantea e Giuseppe Beato, quest’ultimo già stretto collaboratore di Francesco Amantea, padre di Salvatore Vito, storico uomo d’onore del clan; ed infine il gruppo di Belpasso, gestito da Barbaro Stimoli e Daniele Licciardello.

Contributi al sodalizio mafioso da parte di imprenditori

Dalle indagini emergevano anche i contributi al sodalizio mafioso da parte di imprenditori di Paternò con condotte volte a favorire consapevolmente le illecite attività del clan. Emblematica in tal senso la posizione di Salvatore Tortomasi, ritenuto responsabile di concorso in associazione mafiosa poiché, quale titolare di una ditta che si occupava di commercializzazione di prodotti agricoli ed ortofrutticoli - pattuendo con i vertici sia dell'intero clan mafioso “Santapaola-Ercolano”, sia del gruppo di Paternò, ed in particolare con la famiglia Amantea, il versamento di somme di denaro anche quale percentuale degli utili dell'attività di impresa e consentendo agli stessi di concludere affari occultamente in società con se stesso - riusciva nei territori sotto il controllo del clan mafioso ad imporsi in posizione dominante nelle attività economiche esercitate, ottenendo protezione anche nei confronti dei creditori e di altri clan mafiosi. Inoltre favoriva la realizzazione di profitti e vantaggi ingiusti per il clan, al quale forniva un contributo stabile e protratto nel tempo alla realizzazione delle finalità della medesima organizzazione mafiosa.

Altre figure imprenditoriali di Paternò in rapporti con il clan erano quelle di Angelo Nicotra, proprietario di importanti gioiellerie, e di Enrico Maria Corsaro, ai quali venivano contestate condotte volte a consentire rispettivamente a Puglisi Pietro e ad Amantea Vito Salvatore di nascondere la provenienza illecita di beni e somme di denaro.

Il traffico di stupefacenti

L’indagine ha permesso anche di disarticolare tre diverse associazioni per delinquere finalizzate al traffico di stupefacenti. In particolare, è stato possibile accertare l’esistenza di tre diversi sodalizi, tutti collegati ai già citati gruppi territoriali del clan “Santapaola-Ercolano” ed in particolare: un primo sodalizio diretto ed organizzato da Puglisi Pietro e Mobilia Giuseppe e facente capo principalmente alla famiglia mafiosa “Assinnata”; un secondo sodalizio diretto ed organizzato da Amantea Vito Salvatore e da Stimoli Barbaro, operante su Paternò e Belpasso; ed infine un sodalizio diretto da Stimoli Salvatore e sempre operante in Paternò. Ancora, è stata contestata una tentata estorsione aggravata ai danni dell’industria dolciaria “Condorelli” di Belpasso.

Truffa e falso in danno dell'Inps

Nel corso delle indagini emergeva, inoltre, l’esistenza di un sodalizio, capeggiato da Amantea Salvatore Vito e Beato Giuseppe, componenti anche del clan mafioso, finalizzato a commettere più delitti di truffa e falso in danno dell'Inps, al fine di fare ottenere indebitamente l'indennità di disoccupazione agricola a falsi braccianti agricoli compiacenti. Giuseppe Beato ed Salvatore Vito Amantea, con ruolo di promotori ed organizzatori del sodalizio, anche facendo valere la loro qualità di esponenti di spicco del clan mafioso “Alleruzzo-Assinnata”, promuovevano, dirigevano e organizzavano una rete di ditte compiacenti e soggetti che agivano quali procacciatori di falsi "braccianti agricoli", in modo da fare falsamente risultare a questi ultimi un numero di giornate lavorative idoneo ad ottenere l’indennità di disoccupazione e incassando poi dai falsi braccianti il compenso pattuito. In sintesi, i sodali procuravano i nominativi di soggetti compiacenti i quali dovevano figurare come "braccianti agricoli" e con i quali si accordavano per ottenere un compenso pari a circa 20 euro per ogni giornata lavorativa falsamente dichiarata; tenevano i contatti con alcune ditte e, di comune accordo con tali soggetti, predisponevano tutta la documentazione necessaria ed inoltravano all’Inps le domande per la disoccupazione. In questo modo il denaro pubblico destinato a sovvenzionare i braccianti agricoli stagionali per i periodi che non potevano lavorare, andava ad alimentare le casse del clan mafioso che peraltro acquisiva la gratitudine di soggetti compiacenti i quali, grazie a tale sistema, ricevevano comunque somme di denaro pubblico senza mai avere svolto alcuna attività e senza averne diritto.

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