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Domenica, 28 Aprile 2024
Mafia

Il boss non è riuscito a sfuggire al tumore: morto al 41 bis Matteo Messina Denaro

Il mafioso, catturato dopo 30 anni di latitanza il 16 gennaio, è deceduto all'ospedale San Salvatore di L'Aquila, dov'era ricoverato da agosto. Dal 2020 gli era stata diagnosticata la grave patologia al colon che non gli ha lasciato scampo: "I medici dicono al massimo due anni, ma non ci arrivo... Mi avete preso solo per la malattia", disse ai pm

"Tanto io non è che ho speranze, sempre morto sono... Loro dicono al massimo due anni, ma a due anni non ci arrivo, lo capisco perché sto male". Le previsioni del boss Matteo Messina Denaro, formulate il 13 febbraio scorso durante un interrogatorio, erano corrette: è morto nel reparto riservato ai detenuti dell'ospedale San Salvatore di L'Aquila, dove era ricoverato da agosto e dopo che venerdì scorso era stato dichiarato in coma irreversibile. Nei giorni scorsi gli era stata anche interrotta l'alimentazione, in base alle indicazioni date da lui stesso nel testamento biologico nel quale ha rifiutato l'accanimento terapeutico. L'ultimo dei Corleonesi, che aveva compiuto 61 anni il 26 aprile e che per trent'anni è riuscito a sottrarsi alla cattura ( avvenuta il 16 gennaio scorso ) non è riuscito dunque a sfuggire al tumore al colon che gli era stato diagnosticato a novembre del 2020, ed è deceduto mentre era sottoposto al 41 bis. "Non voglio fare il superuomo e nemmeno l'arrogante - aveva detto al procuratore Maurizio De Lucia e all'aggiunto Paolo Guido, che per anni gli ha dato la caccia e alla fine è riuscito ad arrestarlo - voi mi avete preso per la malattia, senza la malattia non mi prendevate...". Specificando "io non mi farò mai pentito". Le condizioni di salute del mafioso si erano aggravate il 10 settembre fino ad arrivare al coma irreversibile venerdì 22 settembre. Ha fatto giusto in tempo ad avere formalmente un'erede: la figlia Lorenza Alagna si è infatti riavvicinata al padre solo nell'ultimo periodo e lui - che nei suoi pizzini la chiamava " sciaqualattuga" e la definiva "degenerata" - ha deciso di riconoscerla . La donna di 27 anni porta quindi il suo cognome, è a tutti gli effetti una Messina Denaro.

La condanna per le stragi e l'omicidio del piccolo Di Matteo

Avido lettore - da Alda Merini a Céline - e appassionato di "storia antica, da Roma a salire, anche perché mio padre (il boss Francesco Messina Denaro, latitante e ricomparso solo da morto al momento del suo funerale, ndr )", senz ' altro furbo, Messina Denaro è stato condannato per le stragi del 1992 e del 1993, ma pure per il sequestro e l'omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, anche se - sempre in quell'interrogatorio - aveva voluto smarcarsi da quello che è senza dubbio uno dei delitti più efferati commessi da Cosa nostra: "Non voglio fare la vittima... Mi possono mettere pure in croce nella vita, ma io il bambino non l'ho ucciso". E aggiunse: "Non ho più niente da perdere nella vita, anche perché sto perdendo la vita stessa, però desideroso che mi restino i miei principi.

La malattia, l'alter ego e la cattura

Era stato lui stesso a raccontare ai pm sia la scoperta della malattia che alla fine lo ha ucciso che "la mia tecnica" per riuscire a sfuggire agli investigatori che per tre decenni gli hanno dato la caccia, con un cerchio che ogni volta si stringeva - portando in in carcere negli anni decine e decine di suoi fiancheggiatori e parte della sua famiglia - ma mai intorno a lui. E la cattura è avvenuta grazie ad un'intuizione che si è rivelata perfetta nel giro di pochi mesi, determinata proprio dal fatto che il mafioso fosse costretto a curarsi: è scandagliando le banche dati del Sistema sanitario nazionale, infatti, che i carabinieri del Ros, coordinati dall'aggiunto Guido, erano riusciti ad individuare l'alter ego del boss, Andrea Bonafede, e alla fine, ricostruendo il suo percorso tra gli ospedali, la mattina del 16 gennaio erano riusciti a prenderlo alla clinica La Maddalena, dove stava andando per sottoporsi alla chemio. "Sono Matteo Messina Denaro", ammise subito.

"Vivevo da caverna, ma ho dovuto abbassare le mie difese"

"Io avevo una mia tecnica - aveva spiegato il boss - voi avevate una tecnologia inimmaginabile... Io caverna, la tecnologia con la caverna non si potranno mai incontrare e vivevo da caverna: telefonini non ne avevo, non avevo niente, mi dissi: 'Se mi metto con la modernità, vado a sbattere'". Ma era stata proprio la malattia a costringerlo ad abbandonare la "caverna" e ad iniziare ad usare un cellulare: "Nel momento in cui si va in un ospedale o anche al cinema la prima cosa che chiedono 'nome, cognome, telefonino'... Allora mi sono fatto il telefonino - raccontò ancora il boss - soltanto per la malattia e sapevo che sarei andato a sbattere, non sapevo quando, ma lo sapevo, perché ho abbassato di molto le mie difese...". E se non fosse stato per questo, lo disse senza mezzi termini a De Lucia e Guido, "non mi prendevate".

"Conoscevo tutte le telecamere..."

Anche perché "tutte le telecamere di Campobello e Castelvetrano le so, primo perché avevo l'aggeggio che le cercava, e non l'avete trovato; e poi perché le riconosco... Molte di queste telecamere quando le piazzavano c'era un segnale, la presenza di un maresciallo del Ros, c'era sempre lui; appena vedevo lui con 2 o 3 fermi in un angolo, già stavano mettendo una telecamera, anche se ancora non avevano messo mano...".

"Sono un criminale onesto, so di Cosa nostra dai giornali"

Le indagini sulla cattura di Messina Denaro sono state negli anni al centro di polemiche, ma anche di spaccature all'interno della stessa Procura di Palermo che gli dava la caccia. Un dato che, assieme alla capacità di muoversi come un fantasma, quasi di anticipare le mosse degli investigatori, ha permesso di protrarre la latitanza per anni ("quando i carabinieri mi facevano questi trabocchetti, io cercavo di difendermi con i miei modi rurali"). Ha negato peraltro di aver avuto contatti con rappresentanti delle istituzioni, talpe insomma che avrebbero potuto aiutarlo. Ma ha negato anche di essere un mafioso: "Non sono un uomo d'onore, per principio, mi sento un uomo d'onore" e "dentro la mia testa io ho un codice comportamentale... Io non faccio parte di niente, io sono me stesso, ma devo essere un criminale? Mi definisco un criminale onesto". Di Cosa nostra sapeva "dai giornali", così come conosceva Bernardo Provenzano "dalla tv", anche se poi gli scriveva lettere. Ha negato anche di aver partecipato a stragi e omicidi, di aver gestito traffici di droga ("vivevo bene di mio"), di aver commesso estorsioni ("non ne faccio di queste cose"), spiegando che "è da 30 anni che su di me travisano", ma quando il procuratore gli chiedeva sarcastico: "Lei sarebbe innocente?", Messina Denaro rispondeva: "No, no, non voglio dire questo, sarebbe assurdo...".

Il tesoro ancora nascosto

Certo è che di soldi il mafioso ne ha maneggiati davvero tanti, basta pensare al patrimonio a lui riconducibile sequestrato negli anni dallo Stato e stimato in oltre 4 miliardi. Poi c'è tutto il resto - e gli inquirenti sono certi che questo resto, molto sostanzioso, da qualche parte esista - ricavato da investimenti in settori strategici come l'eolico, ma anche la grande distribuzione. Nei pizzini trovati nell'ultimo covo dove ha vissuto il boss a Campobello di Mazara la contabilità era chiara: ogni anno c'era una base di partenza di almeno 20 mila euro. Da dove venivano? "Quello che abbiamo investito - disse ancora durante l'interrogatorio ai pm - molto ve lo siete presi - non lei - come Stato, il resto che non vi siete preso un po' era conservato per viverci noi, siamo una famiglia di circa 30 persone, la metà in carcere, io latitante, aerei, avvocati, ce ne volevano soldi, quindi se ne andavano...". Alla domanda: "Ha altre cose?", il mafioso aveva replicato: "La mia vita non è che era solo a Campobello... Queste cose, qualora ce l'avessi, non le darei mai, non ha senso per il mio tipo di mentalità...".

In ogni caso, anche se Messina Denaro si porta con sé tesori e misteri, per usare le parole di Totò, la morte è una "livella", così come anche la malattia: da paziente oncologico ha patito le stesse identiche sofferenze di tutte le altre persone affette dalla sua patologia e con molte delle quali - soprattutto donne - aveva stretto anche amicizia durante le sedute di chemio alla Maddalena. E come abbia vissuto l'ultimo periodo, cioè dopo aver scoperto il tumore, lo ha raccontato lui stesso sempre in quell'interrogatorio.

La scoperta del tumore: "Io duro fino a quando la terapia dura"

"Scopro il tumore con il blocco intestinale, un dolore terribile... Questo al colon è subdolo, non si capisce, mi vado a fare una colonscopia privatamente perché io non pensavo che era il tumore, il dottore a Marsala mi dice: 'C'è un tumore, ma veda che da un momento all'altro lei cade...'. Andai da uno bravo a Mazara, lui vide la colonscopia e dice: 'Qua dobbiamo operare immediatamente perché se no non si va più da nessuna parte', dico: 'Senta una cosa, veda che se si deve mettere il sacchetto, io sacchetto non ne voglio messo: mi cuce e la chiudiamo là, perché io con il sacchetto non ci voglio vivere, preferisco morire, non c'è più dignità...'. Mi fanno l'operazione, mi sveglio, guardo, dico: 'Non c'è il sacchetto' e mi tolgono 30 centimetri di intestino... Fanno l'esame istologico a Castelvetrano: 'Tumore maligno C3', non c'è niente da fare, però va bene così... Mi fanno la Pec e dice: 'Ci sono metastasi al fegato, in cinque punti' allora capisco e vado a La Maddalena e mi hanno operato il fegato. Mi fanno un'altra Tac e scoprono che se n'è andato nel peritoneo e di nuovo al colon, dov'è iniziato, e quindi non sono più operabile: io duro, fino a quando la terapia dura...".

L'ultima strategia: "Se vuoi nascondere un albero, piantalo nella foresta"

Ed è proprio con la scoperta della malattia che Messina Denaro aveva messo in atto la sua ultima strategia per sfuggire alla cattura, quella di essere visibile da diventare paradossalmente invisibile: "Quando ho scoperto che mi restava poco, però mi volevo curare, ho seguito un proverbio ebraico: 'Se vuoi nascondere un albero, piantalo nella foresta'. Penso: 'Ora che ho la malattia non posso stare più fuori e debbo ritornare qua, non posso fare alla Provenzano dentro la casupola in campagna con la ricotta e la cicoria', con tutto il rispetto per la ricotta e la cicoria ma io devo uscire, devo mettermi in mezzo alle persone... Perché più mi nascondo e più sono arrestato. Ho piantato l'albero in mezzo alla foresta, che erano le altre persone, da quel momento io mi sono messo a fare la vita da libero...". E aveva aggiunto: "Se voi dovete arrestare tutte le persone che hanno avuto a che fare con me a Campobello, dovete arrestare da 2 a 3 mila persone", anche perché il mafioso non ha fatto mistero che durante quel periodo giocava a poker, mangiava al ristorante, andava sempre al supermercato, pur sapendo che "andavo a sbattere, ma speravo pure di morire prima...". Invece oggi è morto da detenuto.

Fonte: PalermoToday

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